Quale rapporto tra Big Data ed efficienza sociale? Chiediamolo agli economisti

Conversazione con i proff. Alberto Iozzi, Federico Boffa ed Eugenio Levi

La comprensione dei fenomeni della mobilità non può prescindere da un approccio multidisciplinare. Questo mese abbiamo voluto quindi esplorare uno dei nostri temi – l’impatto dei big data nel governo della mobilità urbana – da un nuovo punto di vista: quello dell’economia. Attraverso un dialogo con i proff. Alberto Iozzi (Università di Tor Vergata) e Federico Boffa ed Eugenio Levi (Libera Università di Bolzano), abbiamo chiesto quali sono attualmente le prospettive e le posizioni dell’economia in questo campo, approfondendo potenzialità, rischi ed esempi di applicazione.

Come i big data hanno cambiato il mondo dei servizi

Dal punto di vista economico, i big data hanno avuto un impatto enorme nel campo dei servizi. Da un lato abbiamo assistito alla nascita di un vero e proprio mercato dei big data e alla crescita senza precedenti dei grandi players in questo campo: «il caso principe è ovviamente quello di Google», afferma Iozzi, «che basa la sua fortuna sulla raccolta e utilizzo di big data, e che nel tempo ha fatto emergere nuove sfide che riguardano antitrust, limitazione della concorrenza, problemi di privacy».

Dall’altro lato, l’avvento dei big data ha portato a un profondo mutamento nell’offerta di servizi: come afferma il prof. Iozzi, «questo tipo di dati sono stati di grandissimo interesse dal punto di vista dell’apertura di nuovi mercati: l’utilizzo di big data ha consentito di creare nuovi servizi in molti ambiti, oltre ad avere ricadute  di enorme interesse in ambito statistico, ad esempio grazie all’utilizzo di dati ad altissima frequenza». Basti pensare allo sviluppo dei nuovi servizi di sharing mobility, così come i sistemi di navigazione. «I privati sono stati in grado di entrare in questi mercati e fornire servizi che hanno cambiato le nostre abitudini, anche in tema di mobilità, modificando il modo in cui ci muoviamo all’interno di contesti urbani. Pensiamo al navigatore: visitare una città che non conosciamo ora è la cosa più semplice del mondo. Affittiamo una macchina, mettiamo il navigatore e questo ci consente di muoverci ovunque in una città che non conosciamo, una possibilità che era assolutamente impensabile fino a pochi anni fa».

E il settore pubblico?

Secondo il prof. Iozzi, il settore pubblico sicuramente non sta ancora riconoscendo le potenzialità dei big data, e anche in ambito accademico non si è stati in grado di anticipare il fenomeno, adottando uno schema reattivo anziché proattivo nella sua comprensione: «Quello di cui abbiamo parlato è un utilizzo privato delle informazioni. Mi sembra invece che l’economia abbia un po’ mancato nell’immaginare i possibili sviluppi di questo settore, focalizzandosi troppo sull’analisi dell’esistente e non sulle potenzialità di questi strumenti dal punto di vista del governo della cosa pubblica».

Ci si è dunque concentrati sullo studio dei nuovi servizi (es. sharing mobility) senza dedicare sufficienti energie all’esplorazione delle possibilità che i big data possono aprire in molti ambiti di interesse pubblico: «ad esempio la sanità, per il miglioramento dei servizi sanitari. O l’utilizzo di big data per la gestione delle flotte di auto autonome ed i possibili sviluppi della mobilità urbana, dal momento che esse ne potranno presto rappresentarne una parte significativa».

Quello che ancora in parte manca, specialmente nel settore pubblico, nonostante i progressi di questi ultimi tempi, sono le competenze: «Ci sono dei tentativi da parte del pubblico di avere accesso ai dati delle grandi compagnie quali Google, Waze, o Octo Telematics. Tuttavia, manca ancora la capacità di mettere a sistema i diversi elementi di questo puzzle». L’autorità pubblica si trova quindi ancora in una situazione acerba per quanto riguarda le soluzioni di accesso ai dati e di utilizzo di queste tecnologie: «In molte città le informazioni sul traffico in tempo reale vengono fornite tramite i pannelli di segnalazione, che non sfruttano appieno le potenzialità tecnologiche odierne; lo stesso accade per quanto riguarda le modalità  di misurazione del traffico. Serve rafforzare la capacità tecnica da un lato, e servono obiettivi di politica pubblica ragionevoli dall’altro».

Prospettive e ambizioni: perseguire l’ottimo sociale coi big data

Parlando di ambizioni in ambito di politica pubblica, si apre un quesito: in quale misura queste nuove tecnologie possono fornire un contributo al miglioramento (o al peggioramento) dell’ambiente urbano? Tornando all’esempio citato in precedenza dal prof. Iozzi: «se prima dell’avvento di queste tecnologie mi recavo in una nuova città e per spostarmi dovevo ricorrere ai mezzi pubblici, ora ho tranquillamente la possibilità di affittare un’auto e spostarmi agilmente grazie a sistemi di navigazione. Quindi qual è l’effetto complessivo? Aumento della domanda o miglioramento dei comportamenti individuali?».

Per rispondere a questa domanda è necessario prima introdurre il concetto economico di “ottimo sociale”, una versione economica del concetto ingegneristico di“ottimo di sistema” (le parole sono importanti, cit.).  L’obiettivo dell’ottimo sociale è trovare una distribuzione ottimale delle risorse e delle politiche che massimizzi il benessere complessivo di un sistema o di una la società (diverso quindi dal perseguimento dell’ottimo individuale di ogni persona). Questo concetto tiene conto delle diverse esigenze e preferenze delle persone, cercando di bilanciare i benefici per il maggior numero possibile di individui.

Esempi di applicazione

In quale modo i big data possono aiutare a perseguire l’ottimo sociale? «Ci sono tanti pezzi del puzzle che sono necessari. In primis, la capacità di gestire i big data. In secondo luogo, la capacità di pianificazione da parte dell’autorità pubblica. Infine, la messa a sistema delle due cose, tutt’altro che facile».

Tuttavia, da parte dei privati emergono già evidenze di sistemi che vanno in questa direzione. Continua Iozzi: «Uber utilizza il cosiddetto surge pricing, ovvero un sovrapprezzo che gli utenti pagano in caso di domanda particolarmente alta in una particolare area geografica ed in un particolare momento, e che incentiva i drivers a soddisfare il picco di richieste. Come si ottengono le informazioni su questo picco di domanda? ovviamente utilizzando i big data in real time».

Il ruolo delle diverse applicazioni di questo concetto, infatti, dipende moltissimo dalle tecnologie. Un esempio è la gestione delle auto autonome, di cui si ha già esperienza (sebbene in situazioni limitate): «Un conto è la gestione di una flotta di auto Uber guidate da drivers, che possono stabilire i diversi percorsi da seguire indipendentemente da quello che tu suggerisci loro, e che sarebbe funzionale al perseguimento dell’ottimo sociale. Un conto, invece, è gestire una flotta di auto autonome, che hai il potere di indirizzare secondo il percorso che ritieni migliore in funzione dell’ottimizzazione di sistema».

È proprio qui che risiede il fulcro del discorso: «L’assegnazione dei percorsi in funzione dell’ottimo sociale, infatti, comporta che per ottenere il risultato migliore in termini di collettività alcuni individui potrebbero subire un peggioramento. Nel caso di un’auto autonoma, naturalmente, si può “guidare” il comportamento verso l’ottimo sociale. Ma nel caso degli individui, dal momento che si ha la libertà di deviare dal percorso suggerito, è necessario fornire i giusti incentivi e le giuste motivazioni. È in questo campo che diventa di fondamentale importanza la comunicazione».

Un tuffo nell’economia comportamentale

Ancora una volta, quando si parla di dati e governo della mobilità, torna dunque centrale il tema della comunicazione. Come introdotto dal prof. Iozzi, infatti, non si tratta solamente di incentivi monetari: «queste nuove tecnologie e capacità di gestione di sistemi complessi dovranno necessariamente essere accompagnati da una serie di politiche che inducano i singoli individui ad aderire a questi progetti, accettando anche quelli che potrebbero essere die piccoli peggioramenti dal punto di vista strettamente utilitaristico-individuale».

Ed è qui che si entra nel campo dell’economia comportamentale: «Nel nostro team stiamo provando a studiare gli effetti della diffusione di sistemi di navigazione sulla congestione, sulla base di dati effettivi. Al contempo, stiamo conducendo analisi sperimentali per indagare la predisposizione delle persone a perseguire l’ottimo di sistema, verificando quali soggetti sono più inclini ad accettare questo tipo di proposta. Ad esempio sulla base del reddito, della predisposizione al rischio, o del tipo di informazioni che si hanno a disposizione».

Grazie ad attività condotte in ambito di laboratorio, è possibile infatti analizzare queste informazioni e verificare la possibilità di influenzare il comportamento degli individui con le cosiddette “spinte gentili” (nudging). Il nudging consiste nell’elaborazione di tecniche atte ad incoraggiare scelte individuali migliori, dal punto di vista sociale, attraverso piccoli suggerimenti o cambiamenti nell’ambiente in cui le persone prendono decisioni (ad esempio esponendo cibi più salutari a livello degli occhi in un supermercato per incoraggiare scelte alimentari più sane). È importante sottolineare che il nudging non costringe le persone a fare qualcosa contro la loro volontà, ma piuttosto crea un ambiente che facilita la scelta desiderata, rispettando così la libertà di scelta individuale.

Tra ostacoli e opportunità

Entriamo nei meandri di questo tema con il dott. Eugenio Levi, ricercatore in economia comportamentale, che ci racconta alcuni strumenti che il decisore pubblico può scegliere di usare per presentare alle persone le scelte e orientarle verso l’ottimo sociale, specie nell’ambito dei trasporti: «se si entra nel tema della gestione “centralizzata” della congestione della città attraverso strumenti digitali, i temi sono due. Uno è quello del nudging, quindi il modo con cui si presentano le scelte alle persone. Sicuramente, una possibilità per convincere le persone ad aderire a questi progetti è rendere chiaro che servono ad aumentare il benessere complessivo».

Come racconta Levi, evidenze empiriche mostrano che dare rilievo all’identità comune dei partecipanti al progetto, e aumentando in questo modo il senso di appartenenza alla propria città, aiuta a far passare in secondo piano motivazioni di carattere più individualistico (nel caso in questione, ad esempio, scegliere la strada più veloce anche se è quella che nel complesso farebbe aumentare il traffico).

Continua Levi: «In secondo luogo, sappiamo anche da diversi studi di economia comportamentale che le persone sono molto sensibili al tipo di informazioni che si dà loro sul comportamento degli altri. Ad esempio, le persone tendono ad essere più motivate a compiere certe scelte se sanno che sono effettuate dalla maggioranza delle altre persone. Comunicare che la maggioranza delle persone sta aderendo al progetto può quindi rappresentare un efficace incentivo per seguire i percorsi suggeriti. O ancora, c’è molta evidenza sperimentale sul fatto che quando le persone votano per una certa scelta, poi questo aumenta l’effettiva adesione alla scelta fatta collettivamente. Ovvero, regole scelte collettivamente portano le persone ad aderirvi in maniera più spontanea».

Quali rischi?

L’utilizzo di tecniche di nudging in combinazione con i big data può suscitare reazioni negative, legate in special modo alla privacy e alla libertà di scelta. Come afferma il prof. Boffa, «può ricordare un po’ George Orwell», e non sarebbe certamente la prima volta che l’aggettivo “orwelliano” viene usato per descrivere le attuali applicazioni dei big data. Continua Boffa: «tuttavia, l’alternativa a orientare le scelte individuali per il bene della collettività tramite nudging è obbligare tali scelte, e rispetto a questo è meglio il nudger.».

Conclude Levi: «Un altro elemento controverso dell’utilizzo dei big data in combinazione con i nudge è un certo grado di paternalismo che è contenuto in questo approccio. Ma quando si parla di usare i big data per misure volte puramente ad innalzare la qualità del servizio pubblico senza che siano necessarie scelte individuali corrispondenti da parte degli utenti, questo problema non dovrebbe porsi. Ad esempio, per migliorare la gestione delle corse nei trasporti pubblici o i tempi dei semafori è sufficiente l’utilizzo dei big data a prescindere da qualsiasi comportamento attivo degli utenti. La misura con cui il decisore pubblico può sfruttare i big data per migliorare la qualità dei servizi pubblici non dovrebbe essere un elemento controverso».

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