Dietro ogni grande decisione, ci sono grandi dati a supporto; o almeno così dovrebbe essere. Se fino a qualche tempo fa il dibattito in questo campo era pressoché inesistente, da qualche anno a questa parte il mondo della pianificazione dei trasporti sta abbracciando un nuovo paradigma che riconosce la progettazione e infrastrutturazione dei sistemi di trasporto come processi decisionali, soggetti a specifiche fasi, dinamiche e sindromi. Nell’intervento di apertura del nostro evento annuale Data Mobility, il prof. Ennio Cascetta ci ha svelato i meccanismi, ma anche le insidie, che si celano dietro alle grandi decisioni e come i dati ed i metodi quantitativi possano operare per migliorarle e guidare il risultato verso ciò che davvero conta: il consenso delle popolazioni che beneficiano o subiscono gli effetti di queste decisioni.
1. Di fronte alle nostre scelte
Le decisioni sui trasporti coinvolgono diversi attori – specialmente decisori pubblici, ma sempre più anche decisori privati – a differenti scale territoriali e per differenti obiettivi. Ci sono decisioni che hanno impatti decennali, come quelle strategiche: piani infrastrutturali, piani urbani della mobilità sostenibile, piani industriali che riguardano ad esempio l’acquisto di materiale rotabile. Si tratta di decisioni che si proiettano su interi territori o aziende per diversi anni. Di diverso tipo sono i progetti, che implicano scelte tattiche e operative più limitate come ad esempio la definizione di singoli interventi.
Tutte queste decisioni, dai piani ai progetti sulla mobilità, sono affette nella prassi da molti errori: fallimenti, rischi, sindromi e bias cognitivi. Ma qual è la natura di questi errori?
2. Un sistema affetto da Planning fallacies
Come ci illustra il professore, il mondo dei trasporti è un sistema complesso in cui operano decisori e stakeholder con obiettivi diversi, talvolta contrastanti. È per questo motivo che i processi decisionali in questo ambito sono definiti in letteratura come wicked: “maligni”.
Nei decenni si sono accumulate sempre più evidenze di errori di progettazione e pianificazione, al punto che si è venuto a creare un filone di letteratura dedicato: le “planning fallacies”. Tramite lo studio delle decisioni prese su opere infrastrutturali di tipo stradale e ferroviario in varie parti del mondo si sono analizzati e riscontrati una serie ricorrente di errori che affettano questo settore. Ad esempio, si è dimostrata una sistematica tendenza a sovrastimare la domanda, sottostimare i costi e sottostimare i tempi, specialmente nelle opere ferroviarie: un “errore” legato alla volontà di dimostrare la necessità dell’opera (ai costi della collettività).
3. Le sindromi più comuni
Le più comuni sono la sindrome DAD e la sindrome di Penelope.
La “sindrome DAD” (Decide, Announce, Defend) descrive un approccio autoritario e top-down nella presa di decisioni. Il processo inizia con una piccola cerchia di leader che prende una decisione in modo autonomo (Decide), senza coinvolgere né consultare i membri dell’organizzazione o le parti interessate. Solo a decisione consolidata segue dunque l’annuncio (Announce), che è spesso unidirezionale e vede i leader comunicare la decisione senza dare spazio per controbattere o intavolare discussioni significative. A quel punto i leader si preparano a difendere la decisione contro qualsiasi critica o resistenza (Defend).
L’approccio è difensivo e reattivo: si cercano di convincere gli altri della validità della decisione, piuttosto che incorporare feedback o suggerimenti. Questo metodo può portare a vari problemi, tra cui la mancanza di coinvolgimento e di accettazione da parte del resto delle persone interessate e potenziali conflitti interni. Un esempio celebre di questa sindrome è quanto accaduto per la TAV Torino-Lione. Ma basta guardare alla sola capitale per trovare altri esempi più recenti, a partire dalle proteste per il quadruplicamento della tratta ferroviaria tra Capannelle e Casilina nel Parco Regionale dell’Appia Antica o il tram TVA in centro storico (tratta Termini-Vaticano-Aurelio).
Notizie di conflitti relativi al contrasto di opere infrastrutturali decise con un approccio DAD (TAV Torino Lione; interventi ferroviari sul Parco regionale dell’Appia Antica; il tram in centro storico a Roma)
La sindrome di Penelope, invece, prende il nome dal celebre personaggio dell’Odissea di Omero, che tesseva una tela di giorno e la disfaceva di notte per evitare prendere una decisione riguardo ai suoi pretendenti. Questa sindrome, infatti, fa riferimento a progetti che non vengono mai portati a termine perché ciclicamente, spesso a causa dei cambi di amministrazione (pubblica o aziendale), il processo decisionale viene messo in discussione e riniziato da capo. Tutto ciò che è stato fatto o scelto dall’amministrazione precedente viene messo in dubbio senza una motivazione solida, rimandando continuamente la decisione e cambiando contenuti, obiettivi e piani. Un esempio calzante per questo tipo di sindrome lo troviamo nel Ponte sullo stretto di Messina., ma anche sull’annosa questione dell’anello ferroviario di Roma.
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Un articolo del blog “Abitare a Roma”
4. Dalle sindromi alle conseguenze: il dissenso
Queste sindromi, continua Cascetta, portano alla creazione di diversi tipi di “barriere di consenso”. La più celebre è la NIMBY (Not in My Backyard), che esprime l’opposizione alla realizzazione di opere vicino alla propria residenza o comunità locale, sebbene in linea teorica se ne riconosca l’importanza (ottima iniziativa, ma fatela da un’altra parte). Ma ci sono versioni più acute: la sindrome BANANA, ovvero Build Absolutely Nothing Anywhere Near Anything, esprime un’opposizione totale all’opera in sé. Non solo non si vuole che si venga a modificare alcunché “nel proprio cortile”, ma proprio da nessuna parte.
Un esempio in questo campo è il road pricing: uno strumento teoricamente desiderabile, ma che si è riuscito a realizzare soltanto in pochissime città, tra cui Milano, peraltro solo in una piccola porzione del territorio. Si tratta di una policy proposta in centinaia di città, ma che viene sistematicamente bloccata perché manca il consenso sufficiente per metterla in campo: basti pensare che a Roma è dal 2017 che dovrebbe essere messa in atto.
Tutti questi fallimenti sono in parte dovuti a un modo sbagliato di prendere le decisioni.
5. Riconoscere la malattia: i bias cognitivi
Tutti noi prendiamo continuamente delle decisioni senza esserne consapevoli: si tratta di bias cognitivi, alla base di interi filoni di discipline. Afferma Cascetta: «L’uomo non è un animale razionale, è un animale che razionalizza: noi siamo pieni di bias. È solo successivamente che cerchiamo di comparare, analizzare le alternative e arrivare a una soluzione consapevole».
Nella psicologia e nell’economia comportamentale, infatti, si studia da tempo come sfruttare i bias cognitivi per far prendere scelte migliori: ne abbiamo parlato qui). Si tratta di nudging, ovvero tecniche che mirano a influenzare le decisioni delle persone in modo sottile e non coercitivo, indirizzandole verso scelte che sono ritenute migliori per gli individui stessi o per la società. Un esempio pratico e diffuso di nudging è il posizionamento degli alimenti più sani all’altezza degli occhi nelle mense scolastiche o nei supermercati, per indirizzare le persone a un consumo alimentare più salutare.
Tecniche di nudging messe in atto negli store Tesco
Nel campo del public engagement si utilizza ad esempio un bias denominato Ikea Effect: se si partecipa in prima persona alla costruzione di qualcosa, si svilupperà con essa un legame emotivo che ne aumenta il valore e l’importanza. Coinvolgere le persone nel processo decisionale significa creare un senso di appartenenza, rendendole più propense a supportare il progetto o la decisione finale.
L’effetto Ikea, illustrato e spiegato nel blog di Howie Mann
Nel campo dei processi decisionali sono stati individuati oltre 200 tipi di bias, di cui 50 ormai consolidati. Tra questi:
- Authority Bias: la tendenza a dare un peso eccessivo alle opinioni e ai suggerimenti delle figure di autorità, spesso a scapito del proprio giudizio o delle proprie competenze.
- Curse of Knowledge: la difficoltà da parte delle figure esperte di mettersi nei panni di chi non ha le stesse informazioni. Quando si conosce bene un argomento, si tende ad assumere che lo conoscano anche tutti gli altri, utilizzando termini tecnici o concetti avanzati, saltando spiegazioni fondamentali o non fornendo il contesto sufficiente. Il risultato è una comunicazione inefficace che impedisce una adeguata trasmissione di conoscenza.
Entrambi sono bias che portano sistematicamente alla sindrome DAD.
Altre tipologie di bias che conducono più comunemente a planning fallacies sono anche:
- Optimist Bias: si tratta della “tendenza a vedere il bicchiere mezzo pieno”, ovvero a sovrastimare la probabilità di eventi positivi e a sottostimare la probabilità di eventi negativi. Questo porta le persone a distorcere i dati e la realtà per sostenere la decisione, conducendo a scelte che non sono basate su una valutazione realistica delle probabilità.
- Sunk Cost Fallacy: è la tendenza ad investire di più sui progetti su cui si sono già spese risorse, anche se portano a risultati negativi, piuttosto che modificare gli investimenti (se c’è stata una spesa bisogna finire l’opera; anche se è sbagliata!).
The sunk cost fallacy spiegata da The Decision Lab
6. Ma come decidiamo?
I modelli sono molteplici: a partire da quello a-razionale, che non prevede alcun confronto delle alternative né la consapevolezza del perché si prendono certe decisioni.
Nel modello razionale, invece, il gioco è tra progettista e decisore. Un esempio tipico è l’analisi costi-benefici. Dice il professore: «È quello che si vede su tutti i libri di testo come modello di pianificazione. Beh, non funziona!». Il rischio è di nuovo la sindrome DAD. «Si ambisce ad una situazione di “ottimo”, ovvero il rapporto costi-benefici migliore: inutile dire, tuttavia, che nella maggior parte i costi ed i benefici non si sanno misurare, non sono quantificati o quantificabili, e spesso si trascurano dei fattori decisivi». Si dice che “Senza dati sei solo un’altra persona con un’opinione”, ma i dati da soli non bastano.
Per questo entrano in gioco i processi decisionali più partecipativi, detti cognitivi: Tecnico, Decisore e Stakeholder interagiscono per arrivare non all’ottimo, ma una soluzione che soddisfi tutte le parti coinvolte: un modello su cui GO-Mobility sperimenta da anni con un approccio ormai consolidato. La bontà della decisione è dunque dettata dal livello di consenso ottenuto.
7. Verso una cura: We need Data (& Methods)
In tutti i processi razionali descritti, i dati servono: ma più di tutto servono i metodi quantitativi, ovvero l’insieme costituito da dati, modelli matematici e analisi interpretativa. «Questi tre elementi devono complementarsi a vicenda: perché i dati, senza chi li sa leggere, possono essere molto equivocabili. Per capire cosa sta succedendo serve un’interpretazione».
In sintesi, quale può essere il ruolo dei metodi quantitativi nei processi decisionali nel campo dei trasporti?
Prevenire è meglio che curare: in primis, possono supportare un’analisi accurata della situazione attuale. Un’analisi che si basa solo su ipotesi future è debole. Ma per avere analisi valide e neutre non devono essere occasionali e propedeutiche a specifici piani e progetti: devono costituirsi osservatori, soggetti che ripetutamente e ciclicamente raccolgono e analizzano dati. Altrimenti emerge l’ennesimo bias, ovvero l’effetto priming,: l’esposizione a certi stimoli condiziona le scelte successive, e questo accade quando si raccolgono i dati con un approccio e uno scopo specifico che poi, involontariamente, ci si porta dietro per sempre.
Comprensibilità: dati e i modelli devono essere comprensibili a tutti, per evitare la Curse of knowledge. Fa parte della pianificazione fare uno sforzo comunicativo, analitico e infografico per trasformare i dati in qualcosa di comprensibile ai non addetti ai lavori. È ruolo di tecnici e amministratori garantire che le persone interessate a partecipare siano in grado di capire il contenuto oggetto di dibattito.
Infine, di grande importanza, è la necessità dei modelli di contenere tutti gli elementi importanti. Non solo quelli importanti per i tecnici e per i decisori, ma per chi subirà (o gioverà) degli effetti di quella decisione: accessibilità, equità, impatto sociale e ambientale sono elementi imprescindibili per prendere decisioni non solo consapevoli, ma condivise e supportate dalle persone che più di tutte ne vivranno le conseguenze.