Nel 2020 il TPL ha subito un crollo fino ad oltre il 90% della domanda, con più di 2 miliardi di perdite. Nonostante si stiano lentamente recuperando i livelli di mobilità pre-pandemia, le quote di utilizzo del Trasporto Pubblico Locale sono tornate quelle di 10-15 anni fa, con alti rischi di congestione dovuti allo shift modale verso l’auto. Come uscirne ed evitare il collasso del sistema di trasporto urbano? Ne abbiamo parlato con l’ing. Pierluigi Coppola, professore associato di Pianificazione dei Trasporti al Politecnico di Milano e docente del corso “Advanced Modeling of Transportation Networks” presso il Massachusetts Institute of Technology (MIT). Specialmente alla luce delle nuove abitudini apportate dal Covid-19, è urgente agire sull’affollamento dei mezzi: «per farlo, le regole del TPL vanno ripensate, non solo le tariffe»
I numeri del TPL in Italia
Le analisi sugli spostamenti delle principali città e aree metropolitane italiane – tra cui Mobility Insights – mostrano che il Covid-19 influenza più la frequenza che la modalità degli spostamenti. Secondo l’indagine ISTAT sulla mobilità degli italiani prima e dopo la pandemia, infatti, questo autunno una persona su quattro prevede una frequenza di spostamento diversa da quella pre-pandemia, ma il 90% utilizzerà lo stesso mezzo. Per il restante 10%, il cambio della modalità prevede quasi uniformemente il passaggio dal mezzo pubblico all’auto privata.
Cambiamenti messi in evidenza anche dagli studi del prof. Pierluigi Coppola, che ci conferma che «nonostante il livello generalizzato della domanda di mobilità stia recuperando i livelli pre-pandemia, esso presenta delle differenze strutturali che riguardano la frequenza degli spostamenti e soprattutto lo shift modale verso il trasporto privato. Il risultato è che siamo tornati ai livelli di utilizzo del TPL di 10-15 anni fa».
Ma quali sarebbero le conseguenze di un mancato recupero delle quote modali del TPL? Nello studio condotto dal professor Coppola nell’ambito del corso “Mobility Engineering” al Politecnico di Milano è scritto con chiarezza che: «un aumento incontrollato dei viaggi in auto può portare a livelli di congestione stradale tali da generare un collasso dell’intero sistema di trasporto urbano, con gravi conseguenze sull’ambiente e sulla qualità della vita delle persone».
Prima della pandemia, il settore del trasporto pubblico presentava numeri importanti: 12 miliardi di euro di fatturato, 5 miliardi di passeggeri, quasi 800 imprese coinvolte e oltre 113.000 addetti (dati dell’Osservatorio Nazionale TPL – Relazione 2018). Nel complesso, come indicato nel documento presentato alla Camera dalle Associazioni di rappresentanza delle aziende dei trasporti e ribadito da Il Sole 24Ore, la domanda nel 2020 è crollata del 90%, con una perdita stimata attorno a 2,2 miliardi di euro, inclusi gli oneri dovuti ai rimborsi e all’estensione di validità dei titoli di viaggio; a fronte di un aumento dei costi (sanificazione, dispositivi di protezione individuale ecc.) stimabili in almeno 100 milioni di euro. Lo squilibrio economico per il 2020 è quindi determinabile in circa 2 miliardi di euro, solo in parte bilanciato dalle risorse stanziate appositamente dallo Stato, con 1,29 miliardi di stanziamenti.
Ripensare i sistemi tariffari del TPL
Alla luce di questi mutamenti, come può essere ripensato il TPL per superare le attuali criticità e recuperare le quote di utenza pre-pandemia?
Secondo Coppola, la problematica principale è quella dell’affollamento dei mezzi: «se prima del Covid-19 era una condizione genericamente tollerata, ora non è più accettata dall’utente. La paura di entrare in veicoli affollati si manifesta proprio nelle ore di punta degli spostamenti (per andare al lavoro e a scuola) in cui c’è bisogno di recuperare quote di utilizzo del TPL». Dunque, per rendere attrattivo il trasporto pubblico, «si deve evitare il più possibile il sovraffollamento dei mezzi, aumentando l’offerta laddove possibile ma anche livellando i picchi di domanda».
Come? «Una delle leve è la tariffa: ad esempio, l’applicazione di sconti nelle “ore di morbida” è una strategia che permette di reindirizzare tutte quelle persone che hanno la flessibilità di muoversi in orari diversi. Tuttavia ciò non è sempre facile da attuare, perché richiede un ripensamento delle strutture tariffarie, in alcuni casi la modifica dei contratti di servizio di trasporto pubblico, e non da ultimo l’accettazione da parte degli utenti». Esistono anche tecniche meno impattanti (“nudging”) che cercano di spingere l’utenza adottare comportamenti di viaggio che vanno in questa direzione, «come ad esempio accade nella metropolitana di Milano, dove un annuncio vocale invita chi può a spostarsi al di fuori delle ore di punta, nel caso specifico dopo le 9».
«L’aumento di capacità nelle ore di punta e l’abbassamento generalizzato delle tariffe, attraverso l’introduzione di nuove forme di abbonamento agevolate per i pendolari – prosegue Coppola – è possibile a fronte di una maggiore sovvenzione da parte del Fondo Nazionale per il TPL; un’opportunità che non appare irrealistica, viste le ingenti risorse che si stanno mettendo in campo per le infrastrutture, incluse quelle previste dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza». Aumento di risorse peraltro confermato dalla recente approvazione della legge di bilancio, che include un incremento del Fondo Nazionale per il TPL.
Maggiori risorse «potrebbero essere utilizzate anche per attrarre nuova utenza sul TPL attraverso servizi integrati aggiuntivi, ad esempio offrendo uno sconto su biciclette e monopattini in sharing per l’accesso alle fermate/stazioni, o per incentivare gli operatori della mobilità condivisa a servire anche le periferie e i comuni delle province, laddove tali servizi servirebbero maggiormente vista l’assenza di alternative all’auto propria».
Modificare i tempi della città: realtà o utopia?
Esistono altri modi per evitare il grande problema della congestione dovuta ai picchi di domanda? Modificare i tempi della città sembra una soluzione facile, se ne parla da anni: per ridurre i picchi delle ore di punta, si de-sincronizzano gli orari di scuole, negozi, posti di lavoro. Ma è veramente una soluzione praticabile?
Secondo Coppola, «Per alcune persone, ad esempio chi è single e ha un lavoro flessibile, può essere facile immaginare di andare al lavoro alle 10 anziché alle 8.30. Ma si tratta di segmenti di domanda minoritari». Riorganizzare i tempi della città significherebbe sconvolgere l’organizzazione dei nuclei familiari: «Immaginare di far entrare i bambini a scuola alle 9 e iniziare il lavoro alle 8, è una cosa fattibile solo per pochi: per la maggior parte significherebbe rivoluzionare l’organizzazione familiare». Ma non solo: «Anche allungare i tempi di alcune attività, come i negozi o gli uffici, comporta dei costi aggiuntivi per gli esercenti che non sempre sono sostenibili».
È possibile che ci siano alcune attività che si possano rimodulare compatibilmente con l’organizzazione quotidiana delle famiglie, ma secondo il professore è un ambito da approfondire meglio, che non può essere considerato al momento la panacea al problema della congestione. Lo dimostra il caso della diffusione dello smart working: «nonostante esso sia oggi molto più diffuso di quanto non lo fosse prima del Covid-19, i livelli di mobilità stanno comunque tornando a quelli pre-covid: anche se lavori da casa, se devi accompagnare tuo figlio a scuola o svolgere altre attività, devi comunque spostarti».
Coppola conclude che vista la quantità delle variabili in gioco, non esiste una soluzione unica: « si tratta di capire come regolare le diverse leve a disposizione a seconda delle specificità di ogni contesto. Un messaggio chiaro però deve essere dato. L’agenda politica delle città deve avere come priorità il recupero della quota modale di utilizzo dei servizi di trasporto pubblico».