

Le città sono organismi viventi che palpitano di energia, emozioni e flussi incessanti di persone, veicoli e informazioni. Fino a pochi anni fa la comprensione di questi complessi ecosistemi urbani era basata principalmente sull’osservazione umana e sull’analisi di dati di carattere qualitativo. Il faro che illuminava le analisi di mobilità era rappresentato dall’indagine sul pendolarismo effettuata su base decennale da ISTAT in occasione del censimento della popolazione (1991-2001-2011), che restituiva come prodotto la matrice origine-destinazione degli spostamenti per motivi di lavoro o di studio (cosiddetti sistematici) della popolazione italiana, suddivisa per modi di trasporto. Ricercatori, consulenti e le stesse amministrazioni basavano i ragionamenti e la programmazione delle politiche di mobilità a partire da questo dato che era sostanzialmente gratuito, affidabile e certificato.
Tuttavia, due grandi cambiamenti sono intervenuti nell’ultimo decennio mutando il quadro statico precedentemente descritto: da un lato la propensione verso stili di vita più complessi ed eterogenei delle persone, accelerata dalla diffusione delle nuove tecnologie legate alla connettività delle persone e delle cose; dall’altro la conseguente necessità da parte di ISTAT di effettuare un censimento della popolazione non più su base decennale ma su base annuale (il cosiddetto censimento permanente).
Nel censimento permanente però non viene effettuata la rilevazione delle modalità di trasporto e si è quindi persa l’informazione della ripartizione modale. Per decenni, infatti, l’indicatore ISTAT di ripartizione modale ha rappresentato la metrica e la dialettica di confronto con la quale è stata misurata la sostenibilità delle nostre città e all’improvviso questo indicatore è diventato non reperibile, se non tramite indagini campionarie telefoniche o sul web effettuate ad hoc. Allo stesso tempo, in virtù dei mutamenti socio-economici in atto, la ripartizione modale ottenuta esclusivamente dagli spostamenti sistematici è risultata non più sufficientemente esaustiva e descrittiva delle dinamiche delle persone. In primis, infatti, gli spostamenti sistematici rappresentano una quota variabile tra il 30% e il 40% di tutti gli spostamenti giornalieri. Al contempo, le indagini fatte con interviste telefoniche (CATI) o web (CAWI) riscontrano notevoli difficoltà ad intercettare un campione rappresentativo della popolazione mobile. Infine, lo sdoganamento delle forme di lavoro smart e di telelavoro ereditate dal periodo della pandemia da Sars-Cov2 ha fatto emergere comportamenti di mobilità diversi per i singoli giorni della settimana.
Di conseguenza, è ormai complesso analizzare la ripartizione modale facendo delle interviste che non tengono conto della variazione indotta dall’agenda settimanale. La domanda che vale la pena porsi è allora la seguente: ha ancora senso utilizzare l’indicatore della ripartizione modale per misurare la sostenibilità delle nostre città?
Grazie all’avvento della tecnologia digitale e alla proliferazione dei dati generati quotidianamente dagli oggetti connessi, siamo ora in grado di ottenere una visione senza precedenti delle nostre città. I dati ci circondano: sensori, telecamere, dispositivi mobili e social media hanno trasformato le città in veri e propri laboratori viventi, generando un’enorme quantità di informazioni che raccontano la storia di ogni angolo urbano.
Siamo quindi nell’era dei Big Data. Eppure, il risultato che otteniamo è una “sinfonia stonata”, dove ogni oggetto produce informazioni apparentemente slegate dagli altri, con ritmi e tempi diversi. I Big Data, inoltre, per loro natura forniscono elementi descrittivi e quantitativi dei fenomeni di mobilità, ma difficilmente contengono tutto lo spettro di informazioni che consentono un’analisi completa e approfondita, oltre al fatto che sono generati da un campione più o meno rappresentativo. In sintesi: i Big Data da soli sono molto utili a capire cosa è accaduto e cosa accade ma non possono fornirci dettagli sulle ragioni per cui si è verificato un determinato fenomeno di mobilità.
Ma come possiamo quindi leggere queste enormi quantità di dati e trasformarle in elementi utili alle decisioni per le politiche di mobilità? La risposta sta nell’uso combinato delle varie fonti dati (Data Fusion), nello sviluppo di algoritmi per l’interpretazione delle informazioni e soprattutto nel pensiero critico delle persone, ovvero le figure tecniche e di ricerca che devono tradurre questi dati in conoscenza e quindi in decisioni.
Il pensiero critico diventa allora la chiave con cui approcciare la complessità generata dalla moltitudine. Per sviluppare il pensiero critico serve ampliare la conoscenza sia teorica che pratica riguardante i metodi statistici e l’utilizzo di adeguati strumenti hardware e software per trattare e manipolare i Big Data.
Ogni analisi di mobilità sviluppata tramite i Big Data deve necessariamente essere supportata da un approccio olistico che consenta di “calibrare” al meglio le procedure di definizione dei parametri e delle metriche di estrazione delle informazioni dalla fonte stessa che li genera. Quasi nessuna fonte Big Data, infatti, produce dati pensati per effettuare direttamente analisi di mobilità e matrici origini-destinazioni. Per ottenere informazioni di valenza trasportistica è necessario perciò effettuare delle ipotesi, come ad esempio imporre delle soglie temporali che definiscono la fine di uno spostamento e l’inizio di un altro. Le ipotesi devono essere verificate sperimentalmente e con spirito critico, ed i risultati ottenuti confrontati con ciò che emerge contestualmente da altre fonti dati il merito al fenomeno o la grandezza che stiamo analizzando.
Come un compositore di musica, chi analizza i dati per svolgere analisi di mobilità deve raccogliere gli elementi e creare una sinfonia di informazioni. Ogni fonte dati, dai veicoli connessi ai dati generati dalle reti di telefonia mobilie ai sensori di rilevamento fino alle indagini campionarie, deve essere “accordata” in funzione del fenomeno che si vuole analizzare. È il nuovo ruolo dei cosiddetti Data Scientist, che hanno il compito di creare sinfonie di dati attraverso le quali rivelare le dinamiche che governano la mobilità delle nostre città.
Il progetto editoriale DataMobility nasce proprio dal desiderio di portare all’interno del dibattito tra i principali attori della mobilità l’attenzione e la necessità dello sviluppo di una cultura del dato. Lo scopo è stimolare il dibattito creando informazione attraverso l’analisi e l’esposizione di dati e dei fatti, e non dei proclami e delle opinioni.
Un pratico esempio è l’analisi che proponiamo nel report (Scaricabile QUI). Attraverso i dati FCD (Floating Car Data), abbiamo individuato un insieme di indicatori utili a descrivere le caratteristiche degli spostamenti effettuati in automobile nelle 14 Città metropolitane del nostro paese, e allo stesso tempo analizzare il cambiamento in atto degli stili di mobilità innescato dagli effetti sociali ereditati dalla pandemia da Sars-Cov2.
Gli indicatori sviluppati e monitorati vogliono essere una proposta sulla quale innescare una dialettica e un confronto sul tema dell’individuazione di indicatori smart di misurazione delle caratteristiche delle nostre città e il monitoraggio delle politiche di mobilità sostenibile.